Situazione difficile sul fronte delle Regioni. Si è cominciato, prima delle elezioni, aumentando il numero dei consiglieri regionali. Si continua ora moltiplicando assessori, commissioni consiliari, posti di «capo dell'opposizione», altre cariche, tutti dotati di indennità, segretari, uffici, telefoni, automobili con autisti. Intanto continua la conflittualità Stato- Regioni.
Prima delle ultime elezioni, il numero dei consiglieri regionali è complessivamente aumentato di più di 120: considerato che mediamente una Regione ha 60 consiglieri, è come se avessimo aggiunto altre due Regioni alle 20 esistenti. Ce n'era effettivo bisogno? O non c'era, piuttosto, bisogno di una riduzione del numero dei consiglieri, visto che le funzioni dei consigli sono diminuite, non aumentate?
Dopo le elezioni, nella Regione Calabria i trenta consiglieri di maggioranza sono tutti o presidenti di commissione, o assessori, o capigruppo e nella Regione Lazio le commissioni consiliari sono salite da 14 a 24. L'invito a maggiore sobrietà è stato seguito dall'osservazione per cui «con la questione morale non si fa politica». Ma quel che preoccupa non è solo la questione morale o quella della spesa pubblica che cresce. La moltiplicazione dei posti nei consigli regionali preoccupa perché è indizio di un male ancora maggiore: la incapacità della classe politica locale di accettare la divisione dei ruoli. Con l'elezione diretta dei presidenti regionali, i consigli sono stati privati del compito di scegliere l'esecutivo. Classi politiche abituate a fare e disfare governi, e a esercitare per questa strada un forte peso sull'amministrazione, si sono trovate improvvisamente disoccupate. Non svolgono il compito di fare buone leggi o di tenere sotto controllo le giunte regionali — ciò che loro richiede il nuovo assetto —. Pretendono compensi — poltrone, assistenti, auto, ecc. — per essere state espropriate del vecchio ruolo. E le giunte, per tener buoni i consigli, concedono posti e permettono spese.
La politica come occupazione di posti, poi, scende per i rami dal livello superiore, quello politico, a quello amministrativo, dove, avendo gli ultimi governi di centrosinistra allentato le norme sul pubblico impiego, si entra per meriti politici, non per concorso, come vorrebbe la Costituzione (e la Corte costituzionale frequentemente, ma troppo timidamente, ricorda).
C'è da ultimo la conflittualità Stato-Regioni. Questa non è dovuta al «federalismo» varato nel 2001, come è stato detto da qualche critico interessato. Ma al fatto che il centrodestra, in attesa di mantenere la promessa di un ancor più alto tasso di «federalismo» (quello voluto dalla Lega), non ha dato attuazione alle norme costituzionali del 2001, suscitando la giusta reazione delle Regioni.
Riesce difficile dire che cosa siano, oggi, le Regioni. Si sono impadronite della sanità, messa alla mercé delle fazioni locali. Hanno accresciuto le partecipazioni, mentre quelle statali venivano smantellate. Concentrano poteri sul territorio, a danno degli enti locali e della competitività del Paese (perché contribuiscono a bloccare le grandi opere). Moltiplicano posti di sottogoverno, vuoti di funzioni. Aumentano a dismisura i processi delle decisioni pubbliche. Condizionano i più minuti provvedimenti nazionali, attraverso la conferenza Stato-Regioni. Dovevano contribuire a risolvere i problemi dello Stato. Sono, al contrario, divenute esse stesse un problema.