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RASSEGNA STAMPA

n. 1155 del 27/05/2007

IL MERITO E L’UMILE ITALIA

(Luca Ricolfi) - Qualche politico comincia ad avere paura, altri fingono di essere preoccupati, altri ancora preferiscono minimizzare. Certo è che da qualche settimana lo spettro del 1992 ritorna ad aleggiare nei palazzi della politica. La stampa ha messo nel mirino i costi della politica e - precisa come un orologio svizzero - ci informa quotidianamente delle malefatte della «casta» e dei suoi scandalosi privilegi. Il libro che li documenta e li racconta (La casta, di Rizzo e Stella) in pochi giorni balza in cima alle classifiche. All’assemblea annuale di Confindustria, il presidente Luca Cordero di Montezemolo striglia la classe politica, mettendone a nudo non solo le (costose) degenerazioni ma anche le (costosissime) non-decisioni. I sondaggi confermano che i cittadini non ne possono più e che il loro scontento investe tutto il ceto politico, di destra e di sinistra. Dobbiamo dunque prepararci a un nuovo sconquasso, come quello che nel 1992-’93 spazzò via i partiti della prima Repubblica? Forse sì, qualcosa potrebbe anche succedere, ma è piuttosto improbabile che la storia si ripeta. La rivolta antipolitica dell’opinione pubblica nel 1992-’93 aveva un doppio «tigre nel motore», che oggi sembra invece assente. Il primo «tigre» era la magistratura, che aveva la volontà e i mezzi per mettere in galera i politici corrotti (e purtroppo anche diversi innocenti). Il secondo «tigre» era l’economia che, con la svalutazione della lira (settembre ’92), aveva fatto scattare un decisivo campanello d’allarme.

Oggi non è così. La magistratura può ben poco, non solo perché ha scarsi mezzi e sempre meno prestigio, ma perché il ceto politico, pur continuando a delinquere più o meno episodicamente, ha costruito un’impressionante rete di strumenti legali per autofinanziarsi e perpetuare la sua occupazione della Pubblica amministrazione (per sapere come, basta leggere il bel libro di Salvi e Villone, Il costo della democrazia, Mondadori, 2005). Quanto all’economia, la differenza fra il 1992 e oggi è che allora ricevemmo un singolo e istantaneo schiaffone (il crollo della lira), mentre oggi affondiamo abbastanza lentamente da permetterci di non percepire quel che sta capitando. Ma c’è anche un’altra differenza importante con il 1992. Oggi non c’è solo disgusto, sfiducia, ira verso una classe politica inadeguata (per usare un eufemismo). Non c’è solo indignazione per la vanità e i privilegi della «casta». Oggi c’è qualcosa di molto più ampio, che tocca il ceto politico non solo in quanto ruba o vive a sbafo, ma in quanto non ha il coraggio di decidere, e non decidendo perpetua il malfunzionamento dell’Italia. I cittadini cominciano a capire che l’inconcludenza dei politici ha dei costi, dei costi diffusi ed enormi. Visti con l’occhio degli esperti quei costi sono i soliti di cui si parla da dieci anni, e si riassumono in quello che si potrebbe definire il «sillogismo dei riformisti»: se non facciamo le riforme continueremo a crescere meno dei nostri partner europei, e se continueremo a crescere meno saranno guai per (quasi) tutti. Visti con gli occhi dei comuni cittadini, tuttavia, quei costi si presentano in un modo diverso. Forse mi sbaglierò, ma la mia impressione è che quello che sta montando nel Paese, fra la gente, non è l’astratta richiesta di riforme (su cui ben pochi hanno idee precise) ma è un ben più concreto e diffuso sentimento di frustrazione e di rabbia per il triste film che quotidianamente passa sotto gli occhi di tutti.

Pochi giorni fa, su questo giornale, Lucia Annunziata ha parlato di un «generale senso di ingiustizia». Sì, credo che proprio questo sia il sentimento che si sta condensando in Italia. La gente, poco per volta ma inesorabilmente, si sta rendendo conto che l’immobilismo del ceto politico sta alimentando un mare di ingiustizie, che però la politica non ha occhiali per vedere. Ingiustizie che non riguardano solo «la casta», ma tutte le caste. Caste che non sono le solite - i ricchi e i poveri, il Nord e il Sud, gli uomini e le donne - ma sono di un tipo diverso. Per descriverle, non basterebbe un’enciclopedia, e nemmeno un decennio di puntate di Report, la meritoria trasmissione di Milena Gabanelli. Però possiamo provare a riassumerle così: chi fa tutti i giorni il proprio dovere, ma non ha una rete di relazioni che lo sostiene e lo protegge, si accorge sempre più sovente che il gioco è truccato. Che non c’è rapporto fra i sacrifici, lo sforzo, la dedizione e i risultati che si ottengono. Che accanto alle grandi diseguaglianze storiche, da sempre centrali nei discorsi della sinistra, si è formata in questi anni una selva di micro-diseguaglianze di fronte alle quali quasi tutte le forze politiche maggiori sono sostanzialmente cieche, sorde e mute. In breve è «l’umile Italia» - come l’avrebbe forse chiamata Pasolini - che si sente dimenticata e offesa dalle nuove disuguaglianze.

Queste disuguaglianze, a loro volta, hanno un comune denominatore: un tragico deficit di meritocrazia, non solo a livello individuale ma anche a livello di istituzioni. Al lavoratore precario che tira la carretta negli uffici pubblici non fa piacere scoprire che la persona che è chiamato a sostituire guadagna dieci volte di più, produce dieci volte di meno ed è inamovibile qualsiasi cosa faccia o non faccia. Ai governatori delle regioni virtuose, che hanno bene amministrato la sanità, non fa piacere scoprire che non ci sono né veri premi per chi ha ben operato né vere punizioni per chi ha lasciato bilanci in rosso per miliardi di euro. Agli studenti che vorrebbero ricevere un’istruzione universitaria decente e non hanno i mezzi per studiare all’estero non fa piacere vedere i figli dei ricchi che vengono spediti negli Stati Uniti o sistemati nelle aziende di famiglia. Ai cittadini che rispettano le leggi non piace accorgersi che i furbi e i delinquenti quasi sempre riescono a farla franca. Agli immigrati onesti, che lavorano, pagano le tasse e rispettano le regole, non piace essere guardati con sospetto perché una minoranza di stranieri può spadroneggiare in interi quartieri delle nostre città.

Insomma, ci vorrà tempo, ma poco per volta molti si stanno rendendo conto che c’è una «dialettica dell’egualitarismo», per parafrasare il buon vecchio Adorno. Fino a un certo punto livellare le differenze produce eguaglianza, ma oltre quel punto produce nuove e più profonde disuguaglianze. Perché non tutti i diritti sono a costo zero, e sempre più sovente difendere a oltranza i diritti di qualcuno implica limitare gravemente quelli di qualcun altro, sia esso un individuo o un gruppo. Quel punto di non ritorno, oltre il quale l’egualitarismo diventa generatore di ingiustizie, è ormai da lungo tempo stato attraversato. È su questo che la sinistra è in ritardo ed è per questo che le sue organizzazioni - partiti e sindacati - sono divenute delle grandi e inconsapevoli macchine per produrre disuguaglianza. È probabile che, ancora per un po’, la cultura di sinistra riuscirà a occultare questa sua paradossale metamorfosi. Ma solo per un po’: alla lunga, se non sarà la sinistra a guidare una salutare reazione, finirà per pensarci la destra. Peccato, perché ci eravamo abituati, con Norberto Bobbio, a pensare che la lotta contro la diseguaglianza - ossia contro tutte le differenze inique - fosse la cifra di un’autentica cultura di sinistra.


La Stampa, 26.5.2007


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