Antipolitica? Semmai l’esatto contrario. Il profondo malessere registrato da molteplici indicatori e riconosciuto anche da diversi inquilini del Palazzo, esprime il bisogno diffuso di una Politica con la maiuscola, di partiti non più ostaggio degli apparati, di istituzioni efficienti e trasparenti. E alimenta un’indignazione che non è tanto contro le retribuzioni delle decine di migliaia di addetti, quanto contro i privilegi, a volte occulti, di cui gli stessi godono.
Contano anche gli stipendi, certo; ma a stridere è soprattutto il loro rapporto con la produttività della macchina pubblica, pessima per concorde giudizio. C’è chi la cifra se la guadagna, ma anche chi non gronda di sudore: chi vuole un esempio, visiti nell’ottimo sito Internet del Senato il contributo dato in un anno dal celeberrimo «senadòr» Luigi Pallaro, pure al centro a suo tempo di tali premurose attenzioni trasversali del Palazzo, da farlo sembrare una sorta di De Gasperi delle pampas. E tutti i livelli istituzionali italiani, dal Quirinale all’ultimo consiglio di quartiere, producono davvero in un ragionevole rapporto con quanto costano?
Il famoso «uomo della strada» stenta a capire perché da noi ci sia un Parlamento quattro volte più affollato di quello degli Stati Uniti. Perché ci sia un governo con più di cento componenti, in nome di logiche non certo di efficienza ma di spartizione. Perché per far nascere un nuovo soggetto politico come il Partito democratico occorra aumentare del 50 per cento i posti previsti, mescolando ai soliti noti figure legate non al territorio ma alla perizia nell’uso della forchetta. Perché negli ultimi anni le nuove Province siano lievitate da nord a sud grazie al massiccio intervento di politici di tutti i colori, spinti molto più dall’interesse di cassetta che da quello generale. Perché nel Comune di Roma, giusto per citare il caso di giornata, ci debba essere un’auto blu ogni tre consiglieri, proprio mentre il sindaco Veltroni in visita al nord proclama la necessità di una politica «lieve nell’uso del potere». Perché in Italia quasi 200 mila persone debbano vivere di politica, in troppi casi senza l’ombra di turn-over.
Tutte queste incrostazioni non le hanno create il ragionier Ubaldo o la massaia Adalgisa. Si devono a una casta, per usare un termine di moda: che da decenni, non da oggi, utilizza le istituzioni a proprio uso e consumo, fino ai livelli collaterali. Le migliaia di componenti dei consigli di amministrazione delle troppe società a partecipazione pubblica sparsi per il Paese non si sono autonominati: sono stati messi lì da una pletora di capi, capini e capetti di partito di ogni formato e colore, per una miscellanea di ragioni che vanno dalla ricompensa ai trombati alla cura degli interessi di bottega.
Servono davvero tutti, quegli enti? Davvero, per fare un esempio, i poco più di 600 km di rete autostradale del Nordest devono essere gestiti da quattro società diverse, con i relativi compensi per gli amministratori, uno ogni 10 km?
E’ questo semplice quanto non esaustivo campionario di situazioni che sta scavando un solco sempre più profondo tra un Palazzo zeppo di inquilini cui è sconosciuto il problema della quarta settimana, e il Paese normale, le cui famiglie nel giro dell’ultimo anno si sono viste aumentare di 72 euro le tasse comunali, soprattutto grazie a uno Stato che ha scaricato sui municipi le proprie inefficienze assieme all’ingrato ruolo di gabellieri. In tutto questo, la Regione Veneto, oggi nell’occhio del ciclone, è sicuramente tra le più virtuose; ma sapere che gli altri sono più spreconi e meglio pagati non consola certo la gente comune, che i propri conti li deve fare con l’indispensabile, non con il superfluo. E quando questa gente viene a sapere della goccia del funerale pagato, allora sì che il vaso trabocca. Perché non è questione di cifra lorda o netta, né si tratta di una fandonia: è una legge della Regione. Votata, tra l’altro, un terzo di secolo fa, quando nessuno degli attuali consiglieri era in carica. Nessuno di loro è sotto accusa: a maggior ragione, basterebbe un piccolo gesto in quattro e quattr’otto, non nell’arco di mesi, per cancellare un privilegio così assurdo, e tanto più assurdo in quanto comporta una spesa modestissima; il che ne accentua l’aspetto di benefit di casta.
Non è un bel segnale il fatto che politici di indiscussa qualità, anziché cogliere queste sensibilità diffuse, si indignino dell’indignazione: testimonia di quanto profondo sia il divario tra le istituzioni e il sentire comune. E’ interesse di tutti lavorare per una buona politica, perché di quella cattiva siamo tutti a dover sostenere i costi: perciò, anziché discutere di chi debba pagarle il funerale, diamoci da fare per tenerla in vita. Da subito. (Francesco Jori)