La proposta di Cesa - Onorevoli spesso lontani da casa? Le sedute sono in media 3 alla settimana
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E l'«indennità tentazioni»? La pensata di Lorenzo Cesa spalanca ai già vezzeggiati politici nostrani nuovi orizzonti. Per evitare che un parlamentare in trasferta a Roma ceda ai pruriti e metta le corna alla moglie con una squillo, come Cosimo Mele (nella foto), gli italiani si dovrebbero far carico di aumentare il suo stipendio per il «ricongiungimento familiare».
Un’idea, diamogliene atto, fantastica. Che darebbe vita a un frizzante dibattito d’aula. Questo diritto al ricongiungimento, concetto in genere utilizzato per gli immigrati che dopo anni di lavoro in Italia vorrebbero essere raggiunti da moglie e figli rimasti in un’isola delle Filippine o sulla peruviana Cordillera Negra, vale per tutti o solo per chi ha la famiglia che abita oltre Viterbo e Frosinone? Vale per le mogli regolarmente sposate o anche per le compagne more uxorio? Possono bastare altri 4.190 euro (4.678 a Palazzo Madama) come quelli dati per stipendiare i portaborse o sono pochi? È dura, vivere a Roma! Chi potrebbe mai negare a queste spose e conviventi (per i parlamentari iDico ci sono già) deportate nella capitale un appartamento in cui vivere dignitosamente in centro storico? Mobili e lampadari su misura dei propri gusti? L’abbonamento a Sky per le lunghe giornate di seduta assembleare? I viaggi in treno o in aereo anche, eventualmente, per la diletta prole? Una domestica per dare una mano in casa, un reparto di pronto intervento elettro-idraulico per i guasti, una baby-sitter per i pargoletti, una tessera per andare al cinema gratis?
Direte: che razza di idea! Attenzione: c’è chi vi accuserebbe di qualunquismo. Preso atto che la capacità di resistere alla carenza di sesso di un deputato del suo partito cattolico è molto più ridotta di quella di Sharon Stone e non supera una manciata di giorni (l’ha detto il Mele in un’intervista: «Questa storia non c’entra niente coi valori della fami glia. Non posso essere un buon padre e un buon marito solo perché dopo cinque giorni fuori casa mi capita un’occasione?») Lorenzo Cesa ha detto proprio così. Testuale: «Si parla tanto di costi della politica, ma al parlamentare bisognerebbe dare di più e consentire il ricongiungimento familiare. Perché la vita del parlamentare è dura, la solitudine è una cosa molto seria». Certo, c’è chi dirà che, come denunciò Giulio Andreotti tre anni fa, «si lavora in aula solo tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì».
Chi ricorderà che un mucchio di volte, in questi anni, è capitato che la maggioranza andasse sotto o che provvedimenti importanti saltassero per mancanza di numero legale solo perché, al giovedì sera o al venerdì, troppi deputati e senatori avevano già preso l’aereo per tornarsene a casa. Chi sottolineerà che nell’ultima legislatura, per fare un esempio, le sedute a Montecitorio sono state 749 in 1.735 giorni: tre alla settimana. Chi calcherà la mano precisando che nei primi sei mesi del 2005, per prendere un periodo a campione, le sedute tenute di venerdì si contano sulle dita di una mano. Chi noterà infine, come dice un’inchiesta dei radicali diffusa ieri da Ugo Magri, che gli eletti alla Camera dell’Udc marcano mediamente visita a una votazione su quattro. Insomma: se l’irredentista irlandese Bobby Sands riuscì a resistere 66 giorni senza mangiare, prima di morire in carcere a Belfast, un deputato nostrano non può resistere in astinenza tre giorni la settimana?
Nella strepitosa sortita del segretario neo-democristiano, che deve essersi morso la lingua davanti alle reazioni sarcastiche non solo degli avversari ma perfino di qualche amico, c’è tuttavia da prendere atto di una novità. In altri tempi, altri democristiani avrebbero proposto all’incontinenza erotica soluzioni diverse. Il mitico Matteo Tonengo, un contadino piemontese eletto per lo scudocrociato, arrivò nei primi anni del dopoguerra a chiedere ai questori della Camera di usare il tesserino parlamentare anche per andare gratis al bordello. Altri tempi. Il caso «sex&coca» che vede oggi come protagonista Mele, tuttavia, non è affatto una novità di questa seconda repubblica.
Basti ricordare lo scandalo intorno alla morte di Wilma Montesi, la ragazza trovata senza vita nel 1953 sulla spiaggia di Capocotta, vittima (così si disse) di un festino a base appunto di sesso e di droga, scandalo che vide il coinvolgimento di Piero Piccioni (figlio di Attilio, allora vice-presidente del consiglio) e sul quale l’Unità arrivò a infierire con botta-risposta come questo: «A Capocotta poca coca cape». «Non poca coca cape a Capocotta». Ecome dimenticare Mary Fiore, la parrucchiera siciliana che, venuta a Romadecisa a far fortuna e diventata proprietaria d’un famoso salone di bellezza («Jeunesse», vicino a largo del Tritone) venne arrestata nel 1961 perché, come ha scritto Filippo Ceccarelli nel libro «Il letto e il potere », aveva «messo su un’agenzia di prostituzione d’alto bordo, frequentata da uomini ricchi e potenti», molti dei quali politici?
Per non dire dell’«affaire» che troncò la carriera di Ettore Santi, un deputato umbro che nel 1947 fu beccato dagli agenti in una pensione nel quartiere dietro la Fontana di Trevi con una signorina disponibile e un grammo di cocaina posato sul comodino. Non era democristiano ma apparteneva a un partito, quello repubblicano di Ugo La Malfa, che aveva un forte senso del decoro. Non cercò, lui, di scusarsi sbuffando polemicamente come il nostro onorevole di oggi «quanti parlamentari vanno a letto con le donnine?». Non invocò «ricongiungimenti familiari». E non si dimise dal partito: fu cacciato. E bollato col marchio di «on. Cocò». Un po’ di senso dell’onore, però, gli era rimasto. E nella convinzione di avere tradito chi lo aveva eletto si dimise da parlamentare. Dimissioni vere. Non da teatrino. (Gian Antonio Stella)