Sentenza della Corte dei Conti isolana, la Regione rischia il tracollo
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PALERMO. Un esercito di impiegati della Regione Siciliana si appresta ad usufruire del “privilegio” della baby pensione, “malcostume” che già in passato ha costituito “scandalo” per l’intero paese. Una sentenza della Corte dei conti siciliana (depositata martedì scorso), infatti, ha dato ragione a 102 dipendenti regionali che avevano chiesto di poter andare in pensione con 25 anni di anzianità. Il provvedimento, però, riguarda anche tutti gli altri “regionali” nelle stesse condizioni che avevano chiesto l’arbitrato della Corte. Se, dunque, si dovesse verificare il via libera indifferenziato e contemporaneo per tutti, il governo regionale verrebbe a trovarsi nella difficile situazione di dover sborsare circa 300 milioni di euro per il pagamento delle liquidazioni del Tfr e per gli adeguamenti maturati dalla data della presentazione dei ricorsi. E sembra proprio che questi soldi non siano in cassa. E’ storia lunga, quella delle baby pensioni e dei tentativi di porre fine all’anomalia. Storia lunga e complicata, controversa fino a rendere difficoltosa la stessa ricostruzione dell’origine e il conseguente evolversi che ha coinvolto, in sei anni, più d’una compagine governativa. L’ultimo atto era stato compiuto, alla fine del 2003, dal governatore Totò Cuffaro, che era riuscito a bloccare l’esodo di 4619 impiegati pronti ad essere posti a riposo dopo 25 anni di servizio, invece dei 35 richiesti dalla legge nazionale. Non bastò l’”assalto alla diligenza” con cui i “pensionandi” si precipitarono a firmare la richiesta. Solo in seicento ce la fecero. Gli altri incapparono nel blocco di Cuffaro (nella foto), preoccupatissimo delle conseguenze economiche della fuga di massa. Ma chi fu lasciato a piedi dalla “diligenza”, tentò di riprenderla alla fermata successiva, quella della Corte dei Conti.
Si è sempre molto parlato - e non sempre a proposito - dello “scandaloso sistema pensionistico siciliano” tenuto in piedi dalla legge 2 del 1962 che stabiliva in 25 anni di servizio il “tetto” per la pensione. Alle donne quella legge offriva, poi, un ulteriore scivolo di 5 anni in considerazione delle maggiori difficoltà che incontravano nell’inserimento del mercato del lavoro che, peraltro, avveniva quando erano già madri. Quel “sistema” ha resistito a lungo, anche se non è esatto considerarlo esclusivamente “siciliano”. Nel 2000, per esempio, proprio mentre - come vedremo - il governo regionale di centrosinistra si apprestava a varare una vasta riforma che, tra l’altro, tendeva a livellare le differenze con le leggi nazionali, la regione col maggior numero di dipendenti pubblici andati in pensione sotto i 50 anni era la Lombardia. Al Sud la Sicilia era superata da Campania e Puglia. E nel 2002 proprio la Puglia approvava un decreto e concedeva incentivi per i prepensionamenti che arrivavano anche a 74 mensilità.
E’ stato il governo di Angelo Capodicasa (ds) - ironia della sorte Totò Cuffaro era assessore all’agricoltura di una formazione di centrosinistra - a mettere in moto, nel 2000, la macchina delle baby pensioni. Il diessino spiega: «Volevamo fare una grande riforma del decentramento e trasferire una serie di poteri ai Comuni e alle Province, in modo anche da snellire e svecchiare la mastodontica macchina regionale che allora contava credo 16.500 dipendenti». Capodicasa insiste: «Il tentativo di trasferire il personale agli enti locali era impraticabile perché nessun regionale avrebbe accettato di andare al Comune o alla Provincia. Non rimaneva che il prepensionamento. E allora abbiamo offerto l’ultima “finestra” possibile prima di far scattare l’adeguamento alla legge nazionale. Avevamo calcolato di riuscire a dimezzare addirittura l’organico, il numero ideale per la nuova organizzazione della burocrazia regionale pensata dalla riforma che avevamo in animo di varare». La domanda, come si dice, sorge spontanea.
Ma c’erano, allora, i soldi per pagare le liquidazioni? Angelo Capodicasa annuisce: «Avevamo accantonato 1500 miliardi di vecchie lire. Ma poi ci fu il ribaltone, cadde il governo, la riforma morì lentamente e rimase la finestra per i prepensionamenti. I 1500 miliardi, però, furono incamerati dal governo di centro destra di Cuffaro e così non si trovarono più i fondi per agevolare le uscite. Quindi arrivò il blocco di Cuffaro che fermò l’esodo». E da qui i ricorsi alla Corte dei conti, mentre la Columbia University premiava il vicepresidente della Regione siciliana, Vladimiro Crisafulli (ds), per quella riforma che non avrebbe mai visto la luce. In verità, con Cuffaro ha resistito (per sei anni) un “Ufficio speciale per il decentramento” che, a sentire Capodicasa, «non ha prodotto granché». Come finirà? I timori per una insopportabile mazzata alle casse della Regione sono palesi. Alfredo Liotta, capo del personale, esclude che la sentenza - peraltro non in sintonia con altri tre pronunciamenti di segno opposto della Corte dei conti - diventi esecutiva, dal momento che «sarà oggetto di ricorso e di richiesta di sospensiva». I “pensionandi” ovviamente gridano alla vittoria. E l’agguerritissimo sindacato dei dipendenti regionali, il Cobas/Codir che vanta il maggior numero di iscritti, ha già fatto intendere che sarà guerra. I segretari Dario Matranga e Marcello Minio parlano di «restituzione per legge di un diritto acquisito» e sottolineano che non esiste «nessun aggravio» per le casse della Regione. «La sentenza - scrivono in un comunicato - stabilisce semplicemente la “restituzione” del Tfr accantonato dai dipendenti regionali siciliani durante tutta la propria attività lavorativa». Come a dire che sono soldi del lavoratori, «che per legge, dal 1 gennaio del 2004, la Regione avrebbe dovuto versare all’Inpdap». (Francesco La Licata)