Nel ’95 l’inchiesta del "Giornale" sui canoni irrisori. Oggi i medesimi protagonisti hanno comprato abitazioni a prezzi scontati. Leggi i nomi di "Svendopoli". Manca solo D’Alema: dopo le rivelazioni dovette lasciare l’appartamento. "Uno scandalo che si ripete ogni cinque anni" denuncia Sforza Fogliani, presidente Confedilizia. Maroni: "Troppi abusi"
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Roma - Casta continua e privilegio perenne. C’è un filo rosso che lega la prima inchiesta condotta dal Giornale dodici anni fa, nell’ormai lontano 1995, allo scandalo denunciato nell’ultimo numero dell’Espresso. Erano i tempi di «Affittopoli», ovvero delle clamorose rivelazioni sugli affitti irrisori, pagati dai potenti dell’epoca per occupare le case di proprietà degli enti, sparse per la capitale. Un ghiotto bottino immobiliare diventato appannaggio di una vasta schiera di potenti, quella che oggi viene identificata come «la casta», e dei loro parenti e amici.
L’indignazione popolare, di fronte a quella sequenza di conclamati privilegi, fu vibrante, tanto che perfino il Parlamento e la magistratura finirono per occuparsi di quella vicenda. Le conseguenze concrete, però, non furono molte. Certo ci fu chi, come Massimo D’Alema, decise di sfilarsi dal gioco e di lasciare la sua casa in affitto a Trastevere (600mila lire per un alloggio di 185 metri quadrati) per comprarsene poi una in Prati, accendendo un mutuo, come un qualsiasi comune mortale. Lo fece dopo un intervento nella trasmissione Samarcanda di Michele Santoro, in cui affermò che aveva bisogno della casa degli enti perché versava metà del suo stipendio di parlamentare al partito. Ma quello fu l’unico passo indietro, l’unico «scrupolo di coscienza». Gli altri inquilini Vip decisero di affidarsi al fisiologico oblio dettato dal trascorrere del tempo. E di rimuovere il proprio nome dal citofono.
Oggi quegli stessi immobili affittati per molti anni a equo canone (ovvero a prezzi stracciati) sono stati svenduti. E alcuni di coloro che furono protagonisti di «Affittopoli» tornano oggi a figurare negli elenchi dell’Espresso. Come dire che il privilegio da temporaneo è stato reso eterno. Tra i nomi che comparivano negli elenchi del ’95 c’è, innanzitutto, quello di Franco Marini, casa Inpdai di 150 metri quadrati ai Parioli allora in affitto prima a 700mila lire mensili e poi, dopo l’applicazione dei patti in deroga, a un milione e settecentomila lire. C’è Lamberto Cardia, oggi presidente della Consob, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che per il suo appartamento Inpdap all’Eur di 194 metri quadrati, pagava nel ’95 un milione e 94mila lire. E c’è quello di Armando Cossutta che a Via della Stazione di San Pietro pagava per 114 metri quadrati un milione e 8mila lire. Una casa acquistata oggi dalla figlia Maura a 165mila euro. Nella stessa via abitava anche Franca Chiaromonte, con un affitto di 534mila lire per 76 metri quadrati, anche lei oggi diventata proprietaria.
Spulciando negli elenchi si trovano altri nomi tra quelli venuti alla ribalta in questi giorni. C’è Walter Veltroni che per la casa Inpdai di Via Velletri da 140 metri quadrati (L’espresso parla, però, di 190 metri quadrati) pagava 800mila lire. C’è Raffaele Bonanni con un canone d’affitto di 492mila lire per la sua casa al Flaminio di 134 metri quadrati.
O, ancora, Nicola Mancino, in affitto a Corso Rinascimento, in una casa da 170 metri quadrati a un milione al mese (prima del passaggio dall’equo canone ai patti in deroga). Come dire che non c’è solo l’acquisto a prezzi spesso stracciati di oggi, ma anche l’affitto super-scontato di ieri.
L’unica certezza è che con «Svendopoli» il pluridecennale assalto delle oligarchie italiane al patrimonio immobiliare degli enti pubblici sembra aver vissuto il suo ultimo atto. O forse il penultimo visto che le vie del potere, in Italia, sono infinite. (Fabrizio De Feo)