Tagli alla sanità. Tagli alla scuola. Tagli all’università. Tagli alla giustizia. Tagli alle forze dell’ordine. Tagli agli enti locali. La manovra per il triennio 2009-2011 che il governo sta completando in questi giorni sembra un bollettino di guerra. E come una guerra, infatti, la vivono gli interessi colpiti: le università protestano, medici e magistrati minacciano scioperi, i governatori litigano con il ministro dell’Economia, i sindaci si arrabbiano, i poliziotti manifestano contro il governo. Per le opposizioni è una pacchia: finalmente tutti in piazza. Alla manifestazione delle forze di polizia persino Di Pietro e Veltroni - giusto freschi di divorzio - si ritrovano di nuovo insieme, o «uniti nella lotta» come si diceva una volta.
Però c’è qualcosa che non torna. Prima delle elezioni Veltroni aveva promesso (o minacciato...) di ridurre la spesa pubblica a un ritmo di 15 miliardi l’anno, oggi il governo sta intervenendo a un ritmo un po’ più lento. In poche parole, il governo di centro-destra sta facendo meno di quel che il Partito democratico aveva intenzione di fare se avesse vinto le elezioni. Piacerebbe sapere se il Pd ha cambiato idea sui conti pubblici. O se Veltroni protesta perché - secondo lui - bisognerebbe tagliare ancora di più (ma allora perché manifesta con chi si oppone ai tagli?).
Si potrebbe obiettare che, in realtà, il Partito democratico non è contrario ai tagli in sé, ma vorrebbe che andassero a colpire gli sprechi e solo gli sprechi, lasciando invariati i servizi ai cittadini. Benissimo, ma allora non capisco perché, anziché indicare con precisione i settori su cui intervenire e gli strumenti per farlo, si preferisce cavalcare la protesta delle categorie colpite. Perché l’opposizione non dà battaglia sulla struttura dei tagli, anziché fomentare la naturale resistenza delle corporazioni toccate dalla manovra?
Dico questo perché, purtroppo, da questo punto di vista la manovra del governo di limiti ne ha molti. Andando all’osso, direi che il difetto di fondo della manovra è che inizia la guerra contro gli sprechi senza aver predisposto i mezzi per vincerla. Quindi, probabilmente, finirà per perderla, con vantaggio (immediato) per le opposizioni, e danno permanente per il futuro dell’Italia.
Per capire che cosa manca all’azione di governo bisogna prima fare un passo indietro e dire qualcosa sull’entità e la distribuzione degli sprechi. Una valutazione molto prudente degli sprechi della Pubblica Amministrazione suggerisce che essi siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l’anno, ossia circa dieci volte i tagli previsti per il 2009 in tutti i ministeri. Tali sprechi, tuttavia, non sono distribuiti in modo uniforme né per funzione né - soprattutto - per territorio.
Non solo ci sono territori virtuosi e territori inefficienti, ma la graduatoria di efficienza cambia da settore a settore. Nella regione in cui abito (il Piemonte), ad esempio, ci sono pochi sprechi nella scuola, pochissime pensioni a falsi invalidi, ma grandi sprechi nella sanità. In altre regioni (ad esempio la Lombardia) gli sprechi sono al minimo in quasi tutti i settori. In altre ancora (ad esempio la Calabria) sono enormi un po’ in tutti i settori. Conclusione: le differenze fondamentali sono di natura territoriale, specie fra Centro-Nord e Mezzogiorno, ma a seconda degli ambiti la graduatoria degli sprechi può variare sensibilmente. Per aggredire le inefficienze della Pubblica Amministrazione occorrono dati di sfondo analitici e condivisi, e obiettivi di riduzione degli sprechi differenziati almeno per settore e per territorio. Sulla sanità, ad esempio, è perfettamente ragionevole che le regioni che hanno meglio amministrato pretendano premi (più risorse per investimenti) e non abbiano alcuna intenzione di pagare per i disastri delle regioni in dissesto.
Ma non basta. Anche se il governo avesse la capacità di localizzare con esattezza i punti di massimo spreco, resterebbe il problema di dare agli amministratori periferici - siano essi il governatore di una regione, il direttore di una Asl o il preside di una scuola - gli strumenti politici, amministrativi e giuridici per rimettere le cose a posto in un tempo ragionevole. Per fare un esempio: va bene imporre risparmi alle Università, magari non rimpiazzando tutti i professori che vanno in pensione, ma è iniquo imporre una regola uniforme su tutto il territorio, visto che ci sono università (relativamente) virtuose e università che hanno irresponsabilmente dilapidato le risorse pubbliche.
Queste cose molti ministri le sanno perfettamente, e le hanno spesso ripetute. Fu Tremonti, in campagna elettorale, a parlare di obiettivi di risparmio differenziati territorialmente. Ed è stato il medesimo Tremonti, pochi giorni fa alla Camera, a dire a proposito del futuro assetto federale: «Non partiamo dalla spesa storica, che contiene le distorsioni storiche». Così come si potrebbero citare innumerevoli interventi di Brunetta, Sacconi, Gelmini, Calderoli, che vanno nella medesima direzione. Il problema, però, è che un conto sono i principi, un conto è la loro traduzione concreta in leggi, norme, regolamenti, circolari. È su questo secondo piano che la manovra mi pare insoddisfacente, per non dire improvvisata.
Senza obiettivi di risparmio disaggregati per territorio e per settore, senza nuovi strumenti di governo della Pubblica Amministrazione, i tagli - specie quando intervengono sui consumi intermedi, dalle stampanti per i tribunali alla benzina per le volanti della polizia - rischiano di mettere altra sabbia negli ingranaggi di una macchina già fin troppo arrugginita e logora. Né si dica che, tanto, in autunno è in arrivo il federalismo: il problema è precisamente il raccordo (anche tecnico) fra manovra centrale e federalismo, sempre che quest’ultimo non si areni nelle secche delle discussioni parlamentari. La manovra c’è ma il suo impianto resta prevalentemente macro-economico, il federalismo le affiancherà micro-meccanismi territoriali (si spera) virtuosi, ma non è ancora nato.
Spero di sbagliarmi, ma la mia impressione è che - nonostante l’introduzione di alcuni incentivi e disincentivi, ad esempio in materia di sanità e di costi della politica - i tagli restino poco selettivi e i premi alle amministrazioni virtuose decisamente inadeguati, se non altro perché spesso non sono premi ma «sconti di pena» (minori tagli). Può sembrare soltanto una questione di «giustizia territoriale», ma non è così. Esaurite quasi del tutto le armi della politica monetaria e della politica fiscale, per far ripartire l’Italia ci resta una sola carta importante: rendere molto più efficiente la Pubblica Amministrazione, eliminando gli sprechi e solo gli sprechi. Solo così sarà possibile ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, solo così sarà possibile completare lo stato sociale, dagli asili nido agli ammortizzatori sociali. E poiché gli sprechi variano enormemente da territorio a territorio, un po’ di «giustizia territoriale» è precisamente quel che ci serve.(Luca Ricolfi)