Una magistratura indifferente nel racconto del giudice Emilio Sirianni
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“Vivo e lavoro in Calabria, il luogo delle regole capovolte, la terra dell’inenarrabile che tuttavia vorrei provare a narrare. Perché da noi non accade nulla di diverso da quanto accade altrove, accade semplicemente di più. Siamo sempre dieci passi avanti nel declino civile, politico, istituzionale e forse potremmo descrivere il paesaggio dietro la curva che non avete ancora imboccato ...”.
Comincia così il racconto di Emilio Sirianni, giudice del lavoro a Cosenza. Calabrese, 47 anni, di cui 11 trascorsi nelle Procure della Regione, è un “giudice di frontiera”, come si dice di chi lavora nelle “sedi disagiate” impegnate nella lotta alla mafia. Luoghi dove spesso si finisce non per scelta ma per necessità, con la speranza di andarsene, prima o poi, in una sede “agiata”.
Il suo è un racconto inedito, anche se qualche tempo fa lo ha in parte anticipato in un Congresso di “Magistratura democratica”, gelando la platea.
È il racconto della magistratura che in Calabria vive e lavora, ma non quella che solitamente finisce sulle pagine dei giornali, eroica o collusa a seconda dei casi.
Il suo non è un racconto di veleni o di corvi, di faide o di lotte di potere. Ma di una magistratura che – per indifferenza o pigrizia, per paura o connivenza, per furbizia o conformismo – gira la testa dall’altra parte, strizza l’occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell’ufficio. E “che accetta – dice Sirianni – l’umiliante baratto fra la convenienza personale e la rinuncia a qualsiasi prospettiva di cambiamento, perché l’unico cambiamento immaginabile è il premio di essere trasferito nell’agognata sede agiata”. Una magistratura, insomma, incapace di “autogovernarsi”, qui più che altrove, e che contribuisce a indebolire la credibilità dello Stato.
Una fotografia desolante, anche se non deve far dimenticare l’impegno, la professionalità e il sacrificio dei giudici “che tirano la carretta nell’oscurità” e vivono una solitudine diversa, perché non l’hanno scelta.
“Così come, in Calabria, non ci si scandalizza per un concorso truccato ma lo si accetta come una fatalità, allo stesso modo – spiega Sirianni – il magistrato calabrese quasi mai reagisce o denuncia, preferisce adattarsi a prassi dubbie, assistere indifferente a condotte inammissibili.
La stessa indifferenza che soffocala cosiddetta società civile si respira nei corridoi dei palazzi di giustizia”.
Il racconto.
“Nel novembre 2006 fu arrestato un Presidente di sezione del Tribunale civile di Vibo Valentia (Patrizia Pasquin - ndr) insieme ad alcuni pericolosi ‘ndranghetisti locali. Il Tribunale di Vibo ha competenza su una zona ad altissima densità mafiosa. Eppure, sia prima sia dopo l’arresto c’è stato un silenzio assordante da parte dei colleghi di quel Tribunale. Possibile che nessuno avesse mai notato strane frequentazioni o comportamenti sospetti? Precedentemente, durante la campagna elettorale per il C.S.M., andammo a Rossano, piccolo Tribunale con giovanissimi colleghi: l’unico argomento che animò il dibattito fu l’estensione dei benefici della sede disagiata ai cosiddetti ‘equiparati’. Eppure, anche lì c’erano problemi seri: forti scontri con gli avvocati, un presidente che per un biennio si era visto bocciare dal C.S.M. le tabelle (l’organizzazione dell’ufficio - ndr) e persino un giudice destituito a causa di diverse condanne per reati gravi e che aveva l’abitudine di non depositare le sentenze”.
Molti uffici calabresi, soprattutto quelli piccoli, “si svuotano ogni venerdì, al massimo, e tornano a riempirsi solo il lunedì o il martedì successivo: tutti tornano a casa – per lo più in Campania, in Puglia, nel Lazio – senza che il capo abbia nulla da obiettare. Alla sua condiscendenza corrisponde la rinuncia a criticarne l’operato”.
Vibo Valentia, Rossano, ma anche Locri, Palmi, “sono tutti fortini assediati, in zone ad altissima densità criminale in cui si lavora male e si vive in totale separatezza dal resto della Regione. Ma di solito se ne parla solo per denunciare carenza di mezzi e di uomini.
Eppure ne accadono di fatti strani.
Come quando, morto il Procuratore Rocco Lombardo, la Procura di Locri fu lasciata reggere per mesi da un giovanissimo collega e solo quando fu trasferito venne finalmente affidata a uno dei più esperti P.M. della Procura di Reggio Calabria, il quale accertò, a fine 2003, l’esistenza di 4.200 procedimenti con termini di indagine scaduti da anni, su un totale di 5.000, e di circa 9.000 procedimenti ‘fantasma’, cioè risultanti dal registro ma inesistenti in ufficio. Dati, peraltro, già riscontrati in un’ispezione del 2001, senza che nulla accadesse”.
Di chi è la colpa? Del C.S.M.? Del ministero? Prima ancora dei magistrati, sostiene Sirianni. “Perché troppi magistrati calabresi organizzano le loro giornate con il solo obiettivo di sopravvivere. Si chiudono in ufficio, alzano un muro invisibile che li separa dalla comunità. Ma in Calabria non basta fare il proprio lavoro. Bisogna guardare che cosa accade fuori dalla porta, anche a costo di perdere la tranquillità”.
Sirianni continua: “Spesso accade, in Calabria, di assistere a processi in cui, durante una pausa, un avvocato difensore entri in camera di consiglio e si intrattenga a lungo con i giudici. E accade anche che poi arrivi un cameriere in giacca bianca con vassoi carichi di libagioni. Che cosa devono pensare le altre parti del processo? Qual è la credibilità dello Stato se le sue istituzioni si comportano così nel silenzio più assoluto?”.
Un costume tollerato. Ignorato. Come del resto la bizzarra gestione di alcuni processi, sfumati in prescrizione.
“Un’eccellente indagine su una grossa truffa comunitaria commessa da noti imprenditori locali – racconta Sirianni – sfociò in un processo in cui l’unica difficoltà era sentire decine di coltivatori di varie Regioni d’Italia, affinché confermassero che non avevano mai venduto neppure uno dei molti quintali di pomodoro fatturati dall’impresa degli imputati. Una difficoltà che, in Tribunali ingolfati come i nostri, consuma anni come candele in chiesa. Conclusa l’istruttoria, a un passo dalle conclusioni si materializzò l’imprevisto, sotto forma di un provvedimento ‘tabellare’ del Presidente del Tribunale, che cambiava il criterio di ripartizione dei processi tra le due sezioni, omettendo di dire l’ovvio: che il nuovo criterio valeva solo per il futuro. Ma da noi l’ovvio non è mai tale. Così il processo passò a un diverso collegio e ricominciò da capo, durò altri anni, fra le proteste degli agricoltori chiamati nuovamente a fare centinaia di chilometri per ripetere il già detto, e si concluse con l’inevitabile prescrizione”.
Gestioni bizzarre, non meno di molte sentenze.
Un giudice decide che un notaio, processato per “falso ideologico”, è un privato e non un pubblico ufficiale; derubrica il reato in “falso in scrittura privata”, cui corrispondono termini di prescrizione più brevi, già consumati, e lo proscoglie. L’appello non viene proposto perché l’ufficio è così disorganizzato che lascia scadere i termini. Idem nel caso di un bancarottiere, che dichiara di aver utilizzato i soldi distratti dall’impresa per curare il fratello malato di cancro: il giudice gli riconosce lo “stato di necessità” e, senza chiedergli la prova della malattia del fratello e del suo stato di indigenza, lo proscioglie. Sulla parola.
Accade in Calabria. Nel silenzio generale.
“Conformismo, tendenza al quieto vivere, fuga dai processi più scottanti, pigrizia” sono le cause principali.
“Spesso – osserva Sirianni – si fanno denunce generiche, magari eclatanti. Ma sui fatti specifici si preferisce tacere. Meglio lamentarsi per mancanza di uomini e mezzi piuttosto che vigilare su anomalie, irregolarità, frequentazioni o cointeressenze pericolose. Tutto questo accade al Sud, e anche altrove. Solo che qui è un po’ di più”. (Donatella Stasio)