«Fiat ha il diritto e il dovere di compiere scelte industriali in modo razionale e in piena autonomia, pensando in primo luogo a crescere e a diventare più competitiva». Così l’ad del Gruppo Fiat, Sergio Marchionne, giustificava la decisione della casa automobilistica di non considerare più validi i piani fissati nell’aprile 2010 con il progetto «Fabbrica Italia», perché nel frattempo il mondo è cambiato e la crisi ha fatto precipitare il mercato dell'auto ai livelli degli anni Settanta. C’è un problema di sovracapacità produttiva individuata in uno stabilimento da chiudere e quindi, non solo i 20 miliardi di euro promessi non saranno più investiti nel Paese Italia, ma addirittura verrà chiuso uno stabilimento con perdita di posti di lavoro.
Pochi giorni dopo un “Rapporto sul mercato del lavoro” curato dal Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) rivela che, negli anni settanta, l'Italia, nel manifatturiero, era al primo posto per crescita della produttività rispetto ai principali Paesi nostri concorrenti nel mondo mentre, negli anni duemila, precipitiamo all’ultimo posto. Dopo l'introduzione dell'euro la produttività nel nostro Paese precipita a un misero 0,4% in media d'anno, contro l'1,8% della Germania, il 2,5% della Francia, il 2,8% dell' Olanda, il 3% del Regno Unito. E meglio di noi ha fatto anche la Spagna (1,5%). Pare quindi che il problema stia nel divario di crescita della produttività del nostro settore manifatturiero rispetto alla Germania che però appare difficile ridurre frenando la dinamica salariale in Italia visto il basso livello medio delle nostre retribuzioni rispetto alla media europea.
Quindi Fiat, da una parte, enfatizza una sovracapacità produttiva in Italia, il Cnel, dall’altra, ci caratterizza come un Paese dalla scarsa produttività. Un quadro complicato e assai confuso, difficile da comprendere per i cittadini impiegati nel settore manifatturiero, che intravvedono la prospettiva della cassa integrazione, se non addirittura quella dirompente del licenziamento. E sì che la trattativa con Fiat che aveva spaccato il fronte sindacale, di fatto isolando la CGIL, aveva prodotto un accordo firmato solo da due sindacati della triplice prevedendo una cessione di diritti per una maggiore produttività in cambio di lavoro sicuro. Tutto inutile. Nel frattempo nel Paese salgono tensioni occupazionali anche in altri siti tra cui le miniere del Sulcis, l’Alcoa, l’ILVA di Taranto, solo per citare i casi più eclatanti.
La sensazione è che, più che nel calo di una produttività correlata a mobilità, dinamiche salariali e precarietà ormai giunte a livelli di guardia, sia invece più ragionevole ricercare le cause del problema nell’assenza di investimenti finalizzati allo sviluppo, in una carenza di prodotti di qualità ed innovativi, in una insufficiente innovazione tecnologica, elementi che contribuiscono ad abbassare il costo unitario del prodotto. Inoltre non si può non ammettere che, negli ultimi vent’anni, i governi che si sono succeduti alla guida del Paese non hanno più prodotto scelte di politica industriale finalizzate al sostegno della nostra industria manifatturiera, preferendo lasciare il campo libero al solo confronto tra imprenditori e rappresentanze sindacali.
All’introduzione della moneta unica non ha poi fatto seguito una decisa politica monetaria europea finalizzata ad impedire che oggi i nostri imprenditori subiscano un costo del denaro cinque o sei volte superiore a quello dell’omologo imprenditore tedesco. Con questa zavorra è molto difficile essere competitivi e produttivi a meno di non ridurre il costo del lavoro ai livelli dell’estremo oriente. Trent’anni fa il governo poteva agire sulla svalutazione per ridare fiato e competitività alle nostre industrie, oggi non è più possibile con l’adozione dell’euro.
Puoi solo “rottamare”, ed è anche di moda.