Vi sono mansioni che, per la loro utilità comune, o per l’amministrazione di beni e servizi, o per la sicurezza di tutti, sono chiamati il pubblico impiego.
Queste categorie di persone operano nel campo dell’educazione, della sanità, nei servizi di polizia, nella protezione civile, Carabinieri, Guardia di Finanza, nei Comuni, Provincia, Regione, nei Ministeri, nel settore stampa, nella difesa Nazionale e altro.
Questi impiegati pubblici servono l’intera collettività e l’intera collettività se ne serve.
Dall’Unità d’Italia ad oggi sono (a mio giudizio) il punto di riferimento della Nazione.
E’ risaputo che, il posto pubblico è affidato a persone scelte tramite concorso aperto a tutti o tramite particolari procedure che intendono selezionare i più idonei, tra le migliaia che vorrebbero svolgerlo.
Capita spesso, che per opera del cosiddetto “favoritismo” l’assegnazione di un posto avvenga per opera di un politico che si garantisce in questo modo la fedeltà elettorale del dipendente.
Da qualche tempo, il pubblico impiego, è soggetto ad una sorta di linciaggio psicologico e morale, soprattutto da coloro che sono eletti nelle Istituzioni ad ogni livello, per amministrare e valorizzare la cosa Pubblica.
Questo attacco agli Statali è, per alcune forze politiche, una strategia finalizzata a considerare questi lavoratori dei veri e propri privilegiati rispetto al resto della società.
Ma è la società, nel suo insieme ad essere depositaria del “dovere” di fruire di un Pubblico Servizio.
Ai cittadini si deve riconoscere il diritto ad una giusta partecipazione e utilizzo di beni e servizi, previsti ed effettuati con il denaro dei contribuenti.
A suo tempo, i dipendenti pubblici, iniziavano la loro attività con un Giuramento di fedeltà alla Repubblica. Salvo qualche eccezione si è sviluppata nel dipendente pubblico una certa fedeltà, in particolare quando il posto si tramandava attraverso le generazioni come i ferrovieri di padre in figlio. E’ semplice, quindi, per lo Statale sposare il sistema. E’ chiaro a tutti che le cose sono cambiate. Ma demolire il sistema a spallate, vuol dire cancellare in poco tempo un secolo di esperienze, professionalità, competenze che non hanno uguali. Sovente i media forniscono visioni riguardo alle origini dei mali della nostra società evidenziando che la cosa pubblica è posseduta da alcuni e sempre più gestita contro ogni regola di buon senso. In poche parole esisterebbe una genia di pubblici dipendenti spenti, stanchi, spesso annoiati, senza speranza e quindi colpevoli dello Spreco. Secondo alcuni dovrebbero essere tutti licenziati, estromessi, sostituiti con persone nominate o scelte dal politico di turno. Per alcuni “precari” e per la vera democrazia, bisogna cambiare periodicamente mansioni, indossare differenti divise, avremo così la possibilità di constatare l’efficacia ed il valore del lavoro. Proprio non ci siamo. Non bastano le leggi Co.Co.Co., il lavoro interinale, partime, a tempo determinato, i novantisti, i Work Shop che stanno distruggendo per legge tutte le forme di sicurezza sociale sin qui ottenute, ora ci si mettono anche i filosofi a dare picconate, al fragile muro.Parliamo di qualità, di educazione permanente, investiamo denaro pubblico nella formazione, ma vogliamo tanta “manodopera” perché il qualificato, il professionista costa.
Come può un giovane diplomato/laureato programmare la propria vita, costruirsi una famiglia, chiedere un mutuo, se ogni 90 gg. è costretto a cambiare impiego? La prima cosa che chiedono le famiglie alla scuola, alla sanità è la professionalità. Che si guadagna sul campo dopo anni di dedizione e impegno.
Ho fatto l’insegnante per quasi 40 anni. La “cattedra” me la sono guadagnata, con il sudore, il sacrifico, lo studio intenso, il rinnovamento cerebrale e tanta buona volontà, senza aiuti e senza politica.